Nell’Europa dell’Est, particolarmente in Romania e Russia - da dove
provengono i risultati di numerosi studi e ricerche effettuati sin dai primi
anni del 1900 -, è molto utilizzata la terapia con l’apitossina. Da qualche
tempo sta crescendo tra gli allevatori di api l’estrazione dell’apitossina, o
veleno d’api. Quello nella foto è un cartello esposto da una azienda agricola
in un mercatino al Lago di Como,
qualche settimana fa.
Il veleno d’ape è un liquido incolore che al sapore si presenta prima
dolciastro e poi amarognolo, solubile in acqua ma non in alcol. La porzione
attiva del veleno (almeno 18 componenti attivi con proprietà farmaceutiche) è
costituita da una complessa miscela di proteine che provoca un'infiammazione locale
ed agisce come anticoagulante. Il veleno è prodotto dall'apparato
velenifero dell'ape posto nell'addome delle api operaie e
ottenuto dalla miscela di secrezioni sia acide che basiche.
L'apitossina, risultato della miscela, è acida (pH da 4,5 a 5,5). Un'ape
può iniettare circa 0,1-0,2 mg di veleno attraverso il suo pungiglione. Il
veleno delle api è tossico, ma si tratta di una tossicità diversa rispetto a
quella - per esempio - del veleno di vipere e serpenti, che provoca un’azione
coagulante del sangue. L’apitossina infatti è emorragico, quindi ha un effetto
contrario, inoltre tra i suoi componenti vi sono elementi che provocano una
benefica azione sul sistema nervoso, stimolando nel contempo il cuore e le
ghiandole surrenali.
La raccolta del veleno d'ape
avviene inducendo l’insetto, con scariche elettriche a bassa tensione, ad
estroflettere il pungiglione e quindi ad emettere il veleno. Utilizzando un apposito
telaio collegato ad un dispositivo elettrico gli apicoltori ottengono la
deposizione del veleno su una lastra di vetro senza che il pungiglione rimanga
conficcato nel sovrastante telo di nylon. Una volta essiccato sulla lastra
il veleno viene raschiato e conservato sotto forma di cristalli.
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