Sant’Antuono, il Santo anacoreta che reclamava la propria festa

Cristianità e paganesimo, culto e riti, narrato e credenza. Come spesso accade le feste che scandiscono l’anno solare sono intrise di tutti gli aspetti appena detti. E gennaio si apre con una grande festa dedicata a Sant’Antonio Abate o Sant’Antuono, il Santo, raccontavano gli avi, che reclamava la propria festa. “Pasqua Epifania ogni festa porta via” – risponde Sant’Antuono – “Ci sta ancora il mio festone”.

E’ una festa a metà tra riti, tradizioni, credenze popolari e cerimonie cristiane. Una festa che rimanda alle aie, ai cortili, al gotico rurale di campagne fredde e ventose. Al fuoco che riscalda e purifica, al senso del magico di cui è intrisa la devozione dei contadini alla terra, alle bestie, al naturale ciclo delle stagioni.

La festa di Sant’Antuono, che cade il 17 di gennaio, rappresenta la prima pietra “miliare” dell’anno rituale. Da secoli, in questo giorno, è d’uso benedire gli animali. Memoria che viene da lontano, che affonda le radici in scritti cristiani e, ancora una volta, pagani.

Pare che il Santo anacoreta mentre si trovava in eremitaggio in una grotta nel deserto ebbe una esperienza mistica “…vi irruppero demoni che avevano assunto diverse forme di bestie feroci e di rettili, e il posto si riempì subito di fantasmi di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti…”, ma egli cacciò gli animali - demoni e si salvò.

Ecco perché la tradizione popolare ha trasformato il Santo in protettore degli animali legando il suo nome ad antichi culti pagani; usi e credenze che furono così sentite dai vari popoli, nel tempo, da farne mutuare il rito anche dalla religione ufficiale, come testimonierebbe la Benedictio equorum aliorumve animalium del rito Romano.

Ma già Boccaccio nel Decamerone fa dire a Fra’ Cipolla “Acciò che il beato santo Antonio vi si guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre…” e gli stessi stornelli popolari ne decantavano il potere sulle bestie domestiche “…e se hai una gallina l’anno prossimo ne avrai una sessantina, e se hai un porcellino per l’anno prossimo un mucchietto, e se tieni jna pecorella, per l’anno prossimo un mucchio…”. A testimoniare la devozione per il Santo fu l’affissione nelle stalle e nei dormitori degli animali di santini raffiguranti il Santo circondato da animali con il fuoco in mano. Sant’Antuono veniva invocato anche per la guarigione degli animali. Formule magico antropaiche venivano recitate per tre volte fino alla completa ripresa della bestia.

“Sante crismale medichè lu cape, sante Siste mèdiche Gesù Criste, Sant’Antuone mèdiche buone, mèdiche quella vena, che tanta guerre mena”.

Nel giorno di Sant’Antuono si usava uccidere il maiale, sacrificio, anche questo pagano, da offrire al Santo per la protezione delle altre bestie e per la buona riuscita della conservazione della carne macellata e di tutti i prodotti da esso derivanti. Si narra che in molti comuni si usava comprare un porcello a cui veniva appeso un campanellino. Alla bestia era permesso di vagare liberamente nel paese, dormire e mangiare dove gli pareva e piaceva, senza pericolo che alcuno lo rubasse. Il giorno di festa, poi, il porcello veniva venduto all’asta e il ricavato utilizzato per finanziare la festa e in parte per acquistare il porco dell’anno seguente. Nasceva così anche la tradizione della Questua, termine derivante dal latino questa, questuo, quaestus, quaerere, cioè chiedere. Qualche giorno prima del dì di festa, gruppi di uomini del paese andavano in giro di porta in porta a chieder cibarie che poi sarebbero servite ad allestire il banchetto in onore del Santo; più tardi divenne una vera e propria manifestazione folklorica allorquando i questuanti iniziarono ad andare in giro di casa in casa cantando e suonando, in alcuni casi anche mettendo in opera una pantomima teatrale che narrava gli episodi di vita tra Sant’Antonio e il Diavolo. Nella tradizione vi era l’obbligatorietà di donare qualcosa poiché il rifiuto veniva visto come un’offesa alla comunità, privata dell’apporto di un suo membro, ed al Santo di cui bisognava assicurarsi la protezione per l’anno nuovo.

Ma non tralasciamo alcun particolare. Perché Sant’Antuono viene raffigurato con il fuoco in mano?

La tradizione vuole che per festeggiare il santo anacoreta si debbano accendere sulle colline o nelle piazze dei paesi enormi falò, i cosiddetti fuochi di gioia. Tradizione molto viva in passato, ma anche oggi, in diversi paesi del Sud Italia dove alla questua alimentare si associa quella della “legna di Sant’Antonio” usata proprio per il falò rituale. La festa è però molto sentita anche in centro Italia ed al nord. In Emilia ma anche in Lombardia, in aie e cascine, un tempo, si preparavano grandi falò e si attendeva la Bruma, ovvero il freddo che richiamava il solstizio d’invero; una volta acceso il fuoco gli abitanti ne ricavavano delle torce e correvano intorno alla loro proprietà e per i campi in senso di purificazione e vita nuova per i campi.

Anche questo aspetto della festa di Antonio affonda quindi le sue radici in un atavico passato ed in particolare in quelle “feste del fuoco” tipiche del mondo pagano che si rifacevano al culto del ciclo solare o, più semplicemente, alla funzione purificatrice. L’inverno si fa duro e l’uomo tenta di esorcizzarlo riportando la “luce” sulla terra. Secondo l’idea primitiva di magia imitativa, così come i fuochi scaldano gli uomini, allo stesso modo il Sole deve tornare a riscaldare la terra.

L’altra idea è quella della purificazione, forse sviluppatasi in un periodo posteriore, e legata all’aspetto distruttivo dell’elemento stesso, concetto facilmente espresso dal bruciare l’effigie, un fantomatico fantoccio che rappresenterebbe proprio lo spirito arboreo.

Nella tradizione popolare, poi, il tema del fuoco è collegata ad un’altra caratteristica del Santo, quella di poter guarire gli ammalati di ignis sacre o “fuoco di Sant’Antonio”, herpes zoster in medicina.

Interessanti testimonianze in merito sono portate dal Pitrè che descrive numerose preghiere e scongiuri siciliani per ottenere la guarigione.

“Sant’Antoniu autu a putenti, Mmau aviti lu focu ardenti, comu jistivu pilivanti e punenti, comu ammanzistivu li porci di Tubia, ccussì ammanzisti li cristiani a vogghia mia”.

Macrocosmicamente questa “guarigione umana” viene trasposta a quella dei campi, la fiamma diventa così il fuoco rigeneratore della tradizione pagana e dunque ciò che rimane del fuoco del santo, le ceneri, devono esser raccolte per poi spargerle nei campi e assicurare loro fertilità in un rituale che riporta prepotentemente a quelle credenze pagane agro-pastorali di cui si è detto.

Da qualche anno si assiste ad un ritorno dei riti legati in qualche modo ai santi ed al loro potere sull’uomo, al ciclo delle stagioni, ai culti celtici e pagani. Ancora oggi quindi nelle nostre chiese si tiene la benedizione degli animali. Nella maggior parte dei casi a buoi, vitellini, galline e maiali si preferiscono, per ovvie ragioni, animali domestici quali cani e gatti ma non mancano città, come Ispica in Sicilia, dove sfilano carri, buoi, maiali e cavalli e la festa si trasforma in una grande giornata di ringraziamento. A rendere omaggio invece al Santo con i falò più grandi della penisola sono i pugliesi dove i fuochi prendono il nome di Fòcare ma anche il Falò di Nusco, in irpinia, è tra i più attesi. Bevande calde, tammurriate e cucina tipica per ricordare una delle più belle tradizioni della cultura contadina.

E, per chiudere, il giorno della festa di Sant’Antuono le tenebre dell’inverno iniziano a retrocedere. La luce del giorno aumenta di alcuni minuti, anzi, come dicevano i nostri nonni, di “un passo di bove”. Non a caso.


di Giovanna Mastrati - tutti i diritti riservati

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