In un numero di Gennaio della
Rivista americana Bloomberg Businessweek è comparso un articolo a firma P. Robinson e V. Silver dal titolo “A
Californian Olive Grower Says His Oil Is Better Than Italy's” in cui
l'elogio degli oli californiani è presentato come contrappunto ad una ingiusta
e capziosa denigrazione degli oli italiani. L'Accademico Emerito prof. Claudio Peri, per scienza e per
passione grande esperto di oli di oliva, autore del volume “The Extra-Virgin Olive Oil Handbook” (John Wiley and Sons, UK,
2014), ha replicato con il testo che segue.
Il titolo dell'articolo di Bloomberg Businessweek “Un produttore di olio di oliva californiano sostiene che il suo olio è
meglio degli oli di oliva italiani” potrebbe essere considerato un elogio
degli oli italiani. Se un produttore californiano promuove il suo olio
sostenendo che è meglio degli oli di oliva italiani, se ne dovrebbe dedurre che
egli considera gli oli italiani come il modello di riferimento della qualità
degli oli di oliva. La lettura dell'articolo, purtroppo, finisce per offrire
una impressione molto diversa e gravemente lesiva del buon nome degli oli
italiani. Per questo mi sono risolto a scrivere questa replica ragionata e
attraverso l'Accademia dei Georgofili ho chiesto che Bloomberg Businessweek ne
pubblichi la versione inglese.
Innanzitutto, non è corretto confrontare un olio di oliva californiano
(o di qualunque altro Paese), commercializzato dalle aziende che lo producono
direttamente dalle olive, con oli prodotti industrialmente come miscele di oli
di varia origine. L'articolo cita correttamente Jean-Louis Barjol, direttore
del Consiglio Oleicolo Internazionale (COI) che ha detto “è un problema di differenze fra produzioni di massa e produzioni
specializzate”. Per essere più espliciti: quando parliamo di prodotti di
massa la chiave competitiva è il prezzo, mentre quando parliamo di produzioni
specializzate ciò che conta è la qualità. Si tratta di segmenti commerciali
diversi per obiettivi, tecniche, management e struttura del business. Su questo
punto suggerirei comunque un atteggiamento di maggiore attenzione e cautela
poiché anche il blending di oli extra-vergini di oliva di diversa origine è una
vera arte e può dare luogo a prodotti di straordinaria qualità se attuato da
produttori competenti e onesti.
E' vero tuttavia che alcuni blend di oli di oliva commercializzati in
America con nomi italiani (che non sempre corrispondono a società italiane) e
con definizioni improprie (light, pure, supervirgin, …), con la attiva e
interessata collaborazione di importatori e aziende di distribuzione americane,
sono talora scadenti. Ciò non solo rappresenta un inganno nei confronti dei
consumatori americani, ma anche un grave danno a tutti gli oli buoni o
eccellenti prodotti in Italia. Vorrei correggere l'affermazione di Gregory
Kelly, direttore generale della California Olive Ranch, secondo cui “gli Europei hanno venduto per tanto tempo i
loro prodotti peggiori agli sprovveduti americani”. No, Mr Kelly! In primo
luogo non sono gli europei, ma gli americani che vendono oli scadenti ai
consumatori americani. In secondo luogo le garantisco che commercianti senza
scrupoli vendono cattivi oli anche ai consumatori europei e italiani
“sprovveduti”, cioè incapaci di distinguere un olio cattivo da un olio buono.
La parte centrale dell'articolo è dedicata al confronto della
olivicoltura super-intensiva secondo il modello del California Olive Ranch con
la tradizionale olivicoltura vecchio-stile dell'Italia. In questo confronto la
produzione italiana è ridicolizzata citando il caso ipotetico e bizzarro di una
“oliveta di 50 olivi coltivati sopra
antiche catacombe”. Questo modo di argomentare è scorretto. Molti
olivicoltori italiani possiedono olivete specializzate e moderne, che coltivano
con grande cura e competenza, preservando la naturale “architettura” della
pianta di olivo. Essi non solo producono oli extra-vergini eccellenti, ma sono
impegnati a conservare la biodiversità dell'olivo, la straordinaria varietà di
profili sensoriali dell'olio e l'altrettanto straordinaria combinazione di oli
e cibi nelle tradizioni culinarie regionali e locali. Oltre a questo, essi sono
costantemente impegnati a conservare la bellezza dei paesaggi caratterizzati
dall'olivo nelle colline di Umbria o Sicilia o Puglia e così via.
La California Olive Ranch presenta il suo modello di olivicoltura con
queste parole: “La società ha 2.200 acri
di oliveta , una vera meraviglia industriale (sic!). Un milione e trecentomila
piante sono allevate come cespugli alti 6-10 piedi (2-3 metri) piantati in
filari serrati. Tale densità consente la raccolta meccanizzata con macchine
alte come case di due piani che passano a cavallo del filare di olivi e
strappano (strip away) le olive facendole cadere in un nastro trasportatore che
le scarica in un camion, che le trasporta ad un frantoio che si trova nello
stesso luogo dell'oliveta e può estrarre fino a 3200 galloni (oltre 12 Hl) di
olio all'ora. Le olive non sono mai toccate con le mani ...”
Non nego che in questo modo si possa produrre un olio extra-vergine
buono o molto buono. Tuttavia il confronto con il modello italiano avrebbe
dovuto essere fatto in modo diverso, ponendosi o, forse più correttamente,
ponendo ai potenziali consumatori, domande di questo tipo:
- Preferite che gli olivi siano coltivati come fitte siepi di arbusti di olivo oppure secondo la naturale architettura di struttura e forma determinata dalla varietà e dalle condizioni pedoclimatiche?
- Preferite uno standard di olio uguale in tutto il mondo, derivante da due o tre varietà di olivo, oppure preferite conservare la biodiversità dell'olivo e la straordinaria varietà dei profili sensoriali, con gli infiniti abbinamenti delle tradizioni e delle invenzioni dell'arte culinaria?
- Preferite l'uso di raccoglitori meccanizzati alti come case a due piani che passano a cavallo della siepe di olivi strappandone le olive, oppure preferite il lavoro più lento della raccolta manuale o con agevolatori operati manualmente, capaci di proteggere l'integrità della pianta e delle olive?
Infine vorrei far notare che alcune affermazioni sul confronto fra gli
oli californiani e italiani sono basate su uno studio condotto all'Olive Centre
dell'Università di California a Davis. Io sono molto affezionato a questa
Università dove ho trascorso un periodo lontano (e molto felice) della mia vita
come ricercatore. Sono anche buon amico dell'Olive Centre e del suo direttore
Dan Flynn. Ma non posso evitare di osservare che il California Olive Ranch è
uno dei maggiori finanziatori di questo centro, come l'articolo di Bloomberg
Businessweek ammette esplicitamente. La trasparenza di questa dichiarazione è
ammirevole, ma certo l'obiettività e la legittimità del confronto ne risulta
seriamente compromessa.
Negli scorsi mesi di Gennaio e Febbraio ho partecipato proprio alla
Università di Davis a discussioni sulle prospettive di una disciplina che sta
diffondendosi in alcune Università di grande prestigio: il “Food Design”. Si ammette, con consenso generale, che le scelte alimentari
dominate da motivazioni di puro profitto si devono confrontare ormai con
motivazioni più complesse riguardanti valori biologici, ambientali, sociali,
etici e perfino estetici. Se mi si perdona una battuta patriottica, vorrei
riassumere le discussioni svolte all'Università di Davis nei mesi scorsi
dicendo che lo stile italiano di pensare, progettare e produrre gli alimenti, i
piatti e le diete, è più vicino alle attese e alle preferenze del consumatore,
soprattutto di quello americano, dell'approccio industriale in stile
California.
Fonte: Fonte: Accademia dei georgofili - georgofili.info
di Claudio Peri - tutti i diritti riservati
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