Dagli ulivi del Cila allo sviluppo che non c'è

Ogni volta che, oggi, lo sguardo di un visitatore casuale, così come quello di un abituale residente, si poggia sui profili del Monte Cila o del Monte Muto, ovvero due dei tre colli che sovrastano l’abitato di Piedimonte Matese, l’attenzione viene attratta, in automatico, come da una grande ferita simile del tutto a una bruciatura, un’abrasione, un eczema. In effetti, lo squarcio che colpisce l’occhio dell’osservatore è effettivamente quello di una “bruciatura”, vale a dire l’effetto scaturito dai violenti incendi che la scorsa estate interessarono i due siti in questione. Ora, è un dato di fatto che ogni qual volta bruci un bosco, una pineta o una riserva di macchia mediterranea, si è di fronte a un disastro, a uno sconvolgimento di un piccolo ecosistema, ma quel che lascia porre più di un interrogativo è che i due siti in questione, ovvero il Monte Cila e il Monte Muto, divengono troppo spesso, quasi a intervalli regolari, obiettivi, bersagli più che altro, del “presunto” piromane di turno. Almeno, questa è l’accusa che ogni volta viene lanciata “tra le fiamme”, salvo spegnersi e dissolversi il giorno dopo.

Sì, perché puntualmente, ad ogni accusa o invettiva dei commentatori che affollano social network o blog d’informazione locale, non corrisponde mai una indagine delle forze dell’ordine o della magistratura in grado di chiudersi con un lieto fine, ovvero l’individuazione del presunto - dei presunti - piromani. Ammesso che un’indagine sia mai stata aperta. Ammesso che sia stata chiusa. Ma tant’è.

Certo, sorprende che, al di là dell’intervento - tempestivo o meno tempestivo - di Vigili del Fuoco, Corpo Forestale e Protezione civile, due aree naturalistiche di grosso pregio, per di più parte integrante di una zona protetta, pur se situate agli estremi confini della stessa, non meritino un’indagine, un’inchiesta, un interessamento istituzionale o politico, sia prima che dopo un evento devastante come un incendio. Se il Monte Cila costituisce la più antica radice delle odierne cittadine di Alife e di Piedimonte, il Monte Muto rappresenta il luogo mistico per eccellenza, con il suo tratturo secolare che conduce ai conventi francescani fondati da Giovan Giuseppe della Croce.

Che tristezza dover constatare che mentre la politica ancora insegue improbabili e impercorribili obiettivi di “valorizzazione” delle risorse naturalistiche e ambientali, la realtà dei fatti sia assolutamente opposta a tale sciatto, inconcludente, incompetente approccio della stessa politica ad una seria progettazione di sviluppo e di salvaguardia del patrimonio ambientale, culturale, paesaggistico.

La gamma degli esempi è vastissima, il Monte Cila e il Monte Muto ne sono preziosa testimonianza specie per quel che riguarda la presenza di uliveti e di macchia mediterranea. Uliveti che un tempo rappresentavano per i contadini una risorsa e una ricchezza ineguagliabile. Proprio dalla cura di quei terreni e dall'attenzione posta dall'uomo al suo ambiente naturale, aree di grande pregio come il Monte Cila sono state salvaguardate per millenni, nonostante la notoria povertà di mezzi, di attrezzature, di studi scientifici e di risorse economiche. Ora che invece viviamo nell'epoca opulenta (sì, opulenta) dei cospicui finanziamenti europei, tradotti in Piani territoriali integrati, piani integrati rurali delle aree protette e via elencando, siamo in grado di realizzare parchi archeologici (come, appunto, quello del Monte Cila), ma poi lasciamo uliveti e “murelle” in balia del tempo, dell’incuria, dell’abbandono e…dei piromani.

Val la pena insistere: che tristezza! Sì, che tristezza vedere depauperato un sito come il Monte Cila, un tempo verdeggiante e lussureggiante uliveto, per far posto alla inconcludenza programmatica di amministrazioni comunali, enti sovracomunali, eccetera, eccetera, eccetera. Eppure, la forza suggestiva di quel paesaggio ha rappresentato, da sempre, la sola fonte di ricchezza di un territorio vasto e variegato come il Matese. La ricchezza che ha ispirato artisti, poeti, scrittori. La ricchezza che ha attratto investitori creativi e danarosi, come lo svizzero Gian Giacomo Egg.

Vallo a spiegare, oggi, a chi riveste responsabilità politiche di quanto sia povero, e magro, il proprio bilancio.


di Gianfrancesco D'Andrea - tutti i diritti riservati

2 commenti:

  1. Sono 50 anni che si predica, si fanno incontri, divulgazioni, sagre, e vedi sempre le stesse facce contente e sorridenti, fiere di aver compiuto chissà che cosa. Il nostro territorio e la nostra agricoltura sono fallimentari, grazie a quelle facce. Quello che scrivi è esatto ma vedo poche speranze personalmente.

    Cordialmente,
    Alessandro

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  2. Infatti, la politica sciatta, che insegue imperterrita percorsi di valorizzazione, spesso inutili e infondati. Ma ci chiediamo perché? Io lo so e anche voi. L'articolo lascia perplessi a riflettere su quanto si faccia per quel bel paesino, Piedimonte, e per quanto invece si possa fare, quanto possa esprimere davvero. Io ci vengo spesso li, mi piace respirare il centro come le montagne, ma anche il silenzio dirompente. Mi complimento altresì con voi giovani che utilizzate strumenti innovativi per dire queste cose anche un po' scottanti, che spesso si nutrono di un silenzio assurdo. In bocca al lupo.
    Lucio

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