Voglio riproporre – a chi mi
segue – questa piccola memoria del nostro territorio, una piccola ricchezza da
conoscere ed apprezzare. Siamo nell’epoca in cui si iniziava a suggerire
la raccolta delle olive a mano e non con l’ausilio di canne, che oltre a danneggiare
il frutto danneggiavano anche i rami che dovevano fruttificare l’anno
successivo. E' il racconto della mia nonna, l'affascinante ricordo
dell'olivagione di quando era giovane, aveva 15 anni. Appena 15 anni e già
tanta responsabilità, caricata di tanto lavoro e di senso della famiglia.
Brividi, se penso a quello che sono oggi la generazione dei quindicenni.
L’attrezzatura era blanda, solo la “Bunetta”, una sacca cucita con il tessuto di un sacco di juta che
si avvolgeva in vita e dove si ponevano le olive man mano raccolte da terra,
per poi versarle nel sacco più grande. Le mani ghiacciate dalla bassa
temperatura di metà novembre e dal venticello freddo è il pensiero più
ricorrente della nonna, si! – perché le olive si brucavano con le
mani – senza l’ausilio dei piccoli rastrelli.
Arrivava l’ora del pranzo, il momento del pane con prosciutto del
proprio maiale o altro derivato ed un frutto di stagione. La nonna ricorda con
tanto amore quei tempi passati dell’olivagione, tutti nei propri oliveti di
montagna – durante la raccolta – si chiamavano per nome e nomignolo
stuzzicandosi benevoli, uniti nella stessa esigenza. Da una “cesa” all’altra:
immaginate di vedere una fascia montuosa piena di ulivi, invasa da tante
persone che si dedicano alla raccolta e nel contempo cantano liberi, seppure
umili, si chiamano, fanno nascere frasi che poi diventano sani proverbi,
lavorano. Infondo, dice la nonna, si stava bene prima, erano tempi diversi, era
tutta un’altra cosa.
La sera – al calare del sole – si ritornava nelle proprie case, con
il “fascio”, preparato da chi
saliva sulle piante di ulivo a raccogliere e provvedeva anche alla potatura.
Oggi magari si bruciano in campo, ma prima nulla si lasciava, era tutto utile,
nel caso specifico la legna serviva per il focolare. A cena infatti, si cuoceva
con la legna e con i carboni, patate e fagioli e frutta e verdura di stagione.
Le olive raccolte venivano ammassate in un angolo, e quando iniziavano a tirare
fuori liquidi venivano portate al “trappeto” o “frantoio”. Passavano
diciotto, venti giorni. “…Noi le portavamo al trappeto in mezzo alla
sorgente, dice nonna”. Il frantoio si pagava in olio, non in moneta, ogni 10
“sustare” di olio prodotto una “sustara” restava al frantoiano. La “sustara” o “stagnera” era il recipiente di
stagno che veniva utilizzato per trasportare l’olio da olive prodotto,
conteneva 10 litri di olio. Tuttavia, chi doveva acquistare olio, spendeva
circa 9 lire al litro. C’erano anche persone, che finite le operazioni di
raccolta, ci chiedevano: putimmu
venì ‘atturnà ll’acino? (possiamo venire a raccogliere gli acini?). Si
riferivano alle poche drupe che erano rimaste a terra negli oliveti, erano le
persone meno fortunate – che non avendo la possibilità – chiedevano il permesso
di poter raccogliere gli ultimi acini da terra con i quali estrarre un po’
d’olio per la propria famiglia. Era così anche per l’uva e per il grano, ossia
per la produzione di vino e di pane. La nonna mi dice che non sempre la
risposta dei proprietari era Si.
E poi, conclude, si aspettava con tanta gioia la Domenica, sia
perché giorno di riposo e di festa, sia perché si mangiavano i maccheroni al
sugo di ragù e la carne.
Questo è il bel racconto della nonna, è bello conoscere questi piccoli
vissuti – così lontani da noi – ed immaginarli come un sogno nella propria
mente, almeno per me che non li conosco. Una cosa è certa: l’olivicoltura, come
l’uomo e la vita, non ha mai smesso di migliorarsi. Almeno da 70 anni ad oggi.
di Vincenzo Nisio - tutti i diritti riservati
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