Gennaio portava con sé odore di fumo, fumo e aria fredda, di
quel freddo, però, che ti entrava dentro i vestiti, su per le narici, tra le
dita screpolate dal gelo. Eppure non aspettavi altro che poter arrivare il
prima possibile, prima che tutto fosse finito, pur sapendo di dover trascorrere
una giornata all’aperto.
Il vapore del pentolone pieno d'acqua messo sul fuoco sotto
la "suppenna" sin dal primo mattino, si confondeva con la nebbia
della campagna ed il calore che sprigionava cozzava con la brina che calpestavi
avvicinandoti al luogo del "delitto". Era intorno all'Epifania che si
consumava il sacro rito del maiale. O, per meglio dire, della morte del maiale.
La mattina del giorno destinato la mamma ci svegliava presto
e si partiva alla volta dell’aia. Non sempre assistevamo all’uccisione
dell’animale che, di solito, avveniva molto presto malgrado il freddo pungente
degli inverni di qualche decennio fa. Il più delle volte il maiale, al nostro
arrivo, giaceva su di un tavolaccio in legno sorretto da due sgabelli accanto
al pentolone d’acqua bollente. Biancastro, pulito, enorme. Nessuna traccia del
fango che nel porcile si attaccava alle sue zampe durante tutto l’anno, del
muso sporco di crusca e di acqua. Veniva privato dei peli con l’acqua bollente e poi sollevato
da almeno quattro persone con gran fatica, legato per le zampe ad un asse di
legno ed appeso a testa in giù. Il sangue veniva raccolto in una pentola e
conservato per i sanguinacci. Del maiale non si buttava niente e, quindi, tutta
la giornata era un susseguirsi di incombenti. Si tagliava la prima carne da
friggere per il fugace pranzo perché se ne doveva testare la bontà, si pulivano
le interiora, la testa veniva posta in cantina per essere lavorata in un
secondo momento, si iniziava a togliere la cotenna e a separarla dal lardo che
sarebbe diventato sugna.
Nel camino della cucina un gran pentolone ospitava il riso.
Che attesa quella del riso! Noi bambini eravamo pronti con il piatto in mano
fin dal primo bollore dell’acqua. Ne elemosinavamo un po’ per mangiarlo con lo
zucchero prima che la nonna vi versasse il sangue, i pinoli e tanto, tanto
cacao.
Nella matarca trovava posto la salamoia per i due prosciutti
che sarebbero stati consumati non prima dei due anni, mentre l’incombenza della
salsiccia si “spicciava” dopo un paio di giorni.
Tra il camino e la porta della cucina, il giorno
prima, il nonno aveva già sistemato la “mazza” per appendervi la salsiccia, le
pancette, le orecchie e raccolto il lauro per aromatizzare la carne e
l’ambiente. Insomma, poche cose venivano terminate quello stesso giorno, per
una intera settimana si lavorava con grande agitazione. Sembrava un film; due
attori, un protagonista, tante comparse, varie scene. Oggi, che lo riguardo nel
fondo della mia memoria, un film in bianco e nero, muto, silenzioso, come una
pellicola di Charlie Chaplin. Ma gli odori, quelli no, li sento. Eccome se li
sento!di Giovanna Mastrati - tutti i diritti riservati
Nessun commento:
Posta un commento