"Fra i personaggi storici di
Piedimonte “D’Alife” c’è sicuramente Maria Felice, che io ho sempre conosciuto
in foto, in questa unica foto, fino a quando qualche mese fa un’amica –
conoscendo la mia passione – mi ha donato un piccolo libricino sul Matese e le
sue novelle e leggende. C’è la storia di Maria Felice che mi ha colpito perché ne
conoscevo solo piccoli frammenti, magari raccontati dai nonni o da qualche zio
o conoscente di passaggio. Bene, la condivido con voi perché questi straordinari
personaggi non possano morire per la seconda volta, nell'indifferenza delle
nuove generazioni".
Il padre era becchino. Pollonia, la madre, un’umile donnetta di Cusano
Mutri, tutta sottomessa e rassegnata, piena di bigottismo e di santo timor di
Dio, la quale si riceveva in santa pace tutte le busse che il suo uomo le
regalava. L’alto impiegato del Comune infatti, dopo aver fatto il suo lavoro al
camposanto era solito trattenersi a lungo a tutte le bettole dove, smodatamente
trincava. Così, dopo aver trascorso tutto il santo giorno a scavare fosse e
riempirle, ciò che per avventura accadeva ben di rado, si tratteneva con gli
amici a fare quattro chiacchiere ed a bere qualche goccetto per rinfrescarsi l’ugola,
maledettamente sempre arsa. In quanto poi a rincasare non aveva mai fretta, c’era
sempre tempo che la moglie sapeva ben aspettarlo con
rassegnazione, lavorando la calza alla luce della lucerna.
Una sola persona al mondo lo irritava: sua moglie Pollonia. Essa ogni
giorno diventava più secca, rattrappita, come i fichi messi al sole di
Settembre. Non era umano che lui doveva contentarsi di quell’ossa coperte di
pellecchia gialla. Aveva tante ossa in custodia!! Pollonia, quando gli portava
la colazione, si segnava avanti ogni croce e leggera sfiorava appena il terreno,
per paura di svegliare i dormenti.
Dopo molti anni di matrimonio nacque finalmente una bambina alla quale
fu dato il nome di Maria Felice. Essa cresceva sana e bella ma con due tendenze
spiccatissime: bere vino e andare in chiesa. Senonché fattasi un po’ più
grande, alle due si unì una terza passione, quella di adornarsi di
cianfrusaglie e di ninnoli. Nell’unione poco assortita del becchino e Pollonia,
ne erano venute fuori le caratteristiche predominanti dei due magnifici
artefici: vino e chiesa, la terza passione bisogna ricercarla nell’affetto grande
che nutriva per le sante Filomene, che si sforzava di imitare nei loro abbigliamenti.
I genitori non erano abituati a pensare la benché minima cosa e per conseguenza
la figliuola, il metallo campione, era mancante in modo assoluto della più
piccola intelligenza.
Nella casetta, sita all’ombra della vecchia Chiesa di San Giovanni in
quel di Piedimonte alto, arrampicata
dietro al palazzo dei Laurenzana, fra uliveti cangianti al vento e i fichi d’india,
Maria Felice non faceva altro che adornarsi la testa di fiorellini campestri e
alle dita straccetti di seta, e così adorna, tutta pavoneggiandosi, scendeva
alla fonte, nello spiazzale di San
Marcellino, ad attingervi l’acqua. Tutti ridevano della fanciulla così
bizzarra ma lei, compassata e seria, non dava retta a nessuno. Nell’inverno,
quando i fiori erano rari, si cingeva il collo con corone di fusti d’aglio
intrecciati.
Non ancora aveva compiuto i dieci anni che il padre credé giunta l’ora
di fermarsi alla stazione d’arrivo e lasciare il posto vacante al Municipio, e
prima che compisse i sedici , la dolce Pollonia, pensò di andare in persona a
seccare i già tanto pregati santi. Maria Felice pianse poco per l’uno e l’altra
e, in quell’occasione, ci aveva tenuto tanto a farsi vedere bene adorna. Nel morire,
la madre le lasciò la casetta che abitavano e una clientela vasta, perché da
quando era morto il becchino, madre e figlia andavano al bosco a far legna che
poi vendevano. Col crescere negli anni smise di adornarsi di fiori e agli e un
vero bazar di chincaglieria faceva mostra al suo collo, sul petto, alle dita,
alle orecchie. Non pensava a cucinarsi, un piatto caldo lo trovava sempre dai
buoni clienti, ed un buon bicchiere di vino glielo davano tutti. Da qualche
tempo era a servizio dei monaci del convento di San Pasquale e ogni mattina, di
buon’ora, faceva l’erta per giungere al convento carica di masserizie o viveri;
arrivata sullo spiazzale tirava forte forte il campanello, posava il carico ed
entrava in Chiesa aspettando il desinare. A mezzogiorno preciso, la porticina
del convento si apriva, ed il laico dava a Maria Felice il piatto fumante, il
pane e il vino che essa andava a mangiarsi nel pollaio e assieme ai cani,
gatti, pulcini e galline in amor consente divoravano tutto, ad eccezione del
vino che beveva lei sola. Dopo consegnate le stoviglie si internava nel bosco e
le prime piante che le capitavano venivano mutilate per formare il suo bel
fascio, che portava in paese a vendere quasi per niente, non avendo cognizione
precisa del valore del denaro.
Maria Felì (qualcuno le
domandava) come si chiama il Direttore del conventino?
Padre Bonafaccia (Bonifacio).
E quell’altro Padre tanto buono?
Padre Cunserva (Padre Anselmo).
Ed il vecchio guardiano che se n’è
andato?
Padre Beone (Leone).
Un giorno, assieme ad una vicina, volle andare da un orefice per farsi
comprare un anello d’oro autentico, che poi avrebbe scontato con fasci di
legna. Non appena in presenza di tanti anelli luccicanti, ne afferrò uno e con
forza se lo infilò al dito e si diede a correre per tutta la piazza gridando: frisca l’anima e patete, frisca l’anima e
patete; e con la mano alzata mostrava l’anello a tutti. Si fu costretti a
segarlo, perché il dito gonfiava, e la poveretta ne pianse tanto, per il dolore
di perdere l’oggetto.
*** *** ***
Signurì pecchè nun mu dai l’allorgiu?
A chella Mariafelice tozza
sempre!
Tu m’hai prumissu a catena ca a
crucetta. A chella Felice comme cerca sempe. Pullonia e Cusano, Pullò.
Maria Felì te ne po ì, a
signurina nun te dà niente.
Così era per tutte le case, e tutti i giorni. Lei si faceva domande e
risposte sempre cercando, e persuadendosi spesso, che niente poteva avere. Un
ingegnere reduce del viaggio di nozze, per non sentirla più, fu costretto a
comprarle una lunghissima catena d’ottone che ella portava avvolta tre o
quattro volte al collo, felicissima di possedere quel tesoro! Rarissime volte
portava scarpe. Calzava sempre una specia di «scarpitti» fatti da copertoni
vecchi d’automobili legati con cordicella. Era convinta di saper leggere e,
girando in fretta tutte le pagine, diceva mille stramberie. Canticchiando le
canzoncine, con una stonatura da urtare, infastidiva i vicini che andavano in
chiesa per pregare. In paese la chiamavano £la scema di Cusano” e i monelli le
davano la baia. Essa, con i piedi rientranti a falce, tirava diritta per le sue
faccende, rispondendo con un borbottio. Gli anni passavano senza lasciarle
nessuna traccia del tempo, e fra il convento, il vino, i gioielli, senza dare
fastidio a nessuno, passava la vita in un lavoro continuo, conservandosi una
bella donna, una povera donna.
*** *** ***
S’era attardata al convento e più ancora nel bosco. I benedetti clienti
diventavano esigenti nel voler le legna ben secche, non avendo più a
disposizione l’estate per asseccarle. «Queste più secche – quest’altre ancora
più» e Sali, risali, le sopraggiunse quasi notte senza accorgersene. Legò in
fretta il grosso fascio e caricatoselo sul capo, prese la via del ritorno. Da
qualche ora, grossi nuvoloni forieri di temporale si ammassavano per il cielo limpido.
In fondo, «lo sterminator Vesevo» non faceva più mostra di sé, perdendosi nelle
nuvole. L’altura di Caiazzo, che fa
la guardia alle due pianure, a mal appena s’indovinava e verso Maiorano di Monte come verso Pietra Melara, una fitta cortina di
nubi, d’un fondo pesante a pochissime gradazioni, circoscrivevano il vasto e
meraviglioso panorama. Il vento Nord-Est era cessato e fitta fitta, cadeva la
pioggia. La poveretta, sotto il peso correva, e istintivamente si dirigeva
verso le cappelle messe lungo la strada che da Piedimonte porta al Santuario. La pioggia cadeva sempre, fitta,
scrosciante, e Maria Felice or scivolando e rialzandosi, or saltando d’un colpo
qualche piazzola guadagnava terreno, decisissima di non abbandonare il suo
carico. La pioggia non aveva tregua ed il guizzo del lampo seguito dal tuono
davano principio ad un vero temporale. Dai monti del Matese la terribile «Bora» attraversando i boschi, veniva giù con
sibili sinistri, tutto piegando, abbattendo. La pioggia poco male, ma i tuoni l’incutevano
timore. Si diede a correre ancora di più ma incespicando in una radice
sporgente, cadde lunga, distesa. Il fascio ruzzolando per la china si portò seco
il fazzolettone giallo a fiorami rossi. Si alzò e senza pensare più al fascio,
con i capelli al vento, si diede a correre mantenendosi in equilibrio per mero istinto
di acrobazia. Passò accanto il campanile e poco dopo arrivò alla prima
cappella. Al forte bagliore d’un lampo poté distinguere un uomo sotto il
riparo. Si rincuorò dicendo: Va ti
confessa Maria Felì e comme curri. Un ringhiare di cane la costrinse a
guardare l’uomo in faccia, che riconobbe.
Come mai Felì hai fatto così
tardi oggi?
Lu putaturu nun tagliava, e chella signora Antunetta vole la legna
assai secca e grossa. A!, chella Maria Felice, comme s’è bagnata.
E la legna?
M’è caduta, purtannuse lu muccaturo.
Dal fondo del riparo l’uomo guardava la donna. La notte invadente ne
profilava la sagoma graziosa che il bagliore frequente del lampo, di una luce
metallica, sibillina, metteva in risalto. Come di una pregevole opera d’arte,
avvolta dalle tenebre e che per raffinatezza d’un amante esteta venisse
illuminata a tratti per poi nell’oscurità condensarsi alla gioia di sentire
dentro di se il suo solo idolo, il suo sogno, la sua dolcissima visione, per
rivederlo ancora e ancora estasiarsi nel bagliore d’un attimo. Il cane,
accarezzato dalla donna, non ringhiava più; la pioggia cadeva sempre, l’ombra
nella cappella si faceva più fonda e l’uomo guardava quel rilievo vivente,
incorniciata dall’imboccatura del riparo. Trasportati dal vento, dolci e
penetranti, salivano al monte i flebili rintocchi dell’Ave Maria. La donna si
segnò, facendo risonare nel locale vuoto un tintinnio di catenelle e medaglie.
L’uomo immobile e come lontano la osservava in silenzio, sempre costretto a
serrare le grosse labbra per non farvi sfuggire un umore freddo salivastro che
era costretto ingoiare con rumore. Data la sua immobilità e costrettavi dall’oscurità
la pupilla s’era dilatata oltre misura, dando in escandescenze turpi.
Controvoglia, dalle glandole, il liquido si cerneva sempre continuamente, e non
bastando l’ingoiare spesso veniva fuori dalle labbracce perdendosi per l’irsuta
barba porcina. Un tremito prima leggero poi sempre più forte gli prese le mani,
tanto che il bastone che teneva stretto in pugno, picchiettava il terreno con
piccolo rumore. La mazza gli cadde di mano e andò a colpire sulla coda del cane
che diede un piccolo guaito. L’incanto era rotto, l’uomo dal fondo si appressò
alla donna:
Perché non vieni nella mia
casetta, faremo il fuoco e ti potrai asciugare.
Nun pozzu, Felice a ddaì a lu paese. A Pullonia!
Tu lo sai, insisteva il pastore
con la voce rauca, che io a casa conservo tutti gli oggetti della moglie morta.
Ci sono anelli, orecchini, «Brillochè», bracciali. Se vieni faccio scegliere a
te ciò che vuoi.
No, nun pozzu, rispondeva la
donna già con gli occhi scintillanti per la bramosia di avere tanti oggetti.
Se vieni te li regalerò tutti.
La voce gli s’era fatta afona e indistinta, il tremito lo ripigliava
violentemente.
Domani è dummenica, se a signuria me li rai, io me li mettu pe annà
alla cresia. Iammucenni – e ridendo seguì
l’uomo e il cane.
Il temporale aveva ceduto ad una notte meravigliosamente stellata. Un
profumo di vita e di saluteesalava dalla terra di fresco bagnata. Un sussurrio
di mistero aleggiava nell’aria, un dolce balsamo floreale saliva dalla vallata
tutta. Nella capanna, fiocamente illuminata da una candela fumante, su un
mucchio di fieno odoroso, tutta adorna di ninnoli e oro Maria Felice russava
rumorosamente. La fioca luce tremolante sul tavolo posto al centro, illuminava
i residui di una cena. Accanto al camino acceso asciugavano le gonnelle di
Maria Felice, dai tinozzi messi in un canto pieni d’uva pigiata esalavano un
odore intenso di mosto. Tutto era armonia ed il trillare cadenzato del grillo
nel risuonare argentino, accresceva la suggestività e l’isolamento del monte.
Come trafitta da punta acuminata, Maria Felice diede un grido, svegliandosi. Il
pastore chino su di lei la serrava fra le braccia. Resa furente dal dolore
fisico strinse al collo il satiro facendolo ruzzolare a terra e, inconscia di
ciò che faceva, si diede a correre per la china entrando in paese mezza nuda
gridando: «il diavolo, il diavolo».
Col fazzoletto annodato dietro la nuca, il bustino sulla camicia dalle
mezze maniche, i piedi a falce rientranti, sfuggenti di sotto un gonnellone
tutte pieghe e sempre calzati di scarpitti ultra antichi, sotto un fascio
pesante e sempre ingemmata, traversa le vie del paese. I monelli al vederla le
corrono appresso lanciandole qualche sasso o canzonandola: Maria Felì u diavolo – u diavolo
Maria Felì.
La poveretta stringe le gambe e borbottando parole incomprensibili,
passa oltre, curva sotto il grave peso.
La foto di apertura è del dr.
Carlo D’Andrea e ritrae Maria Felice nella piazzetta del convento di San
Pasquale, vicino alla fontana che ancora oggi è presente.
di Vincenzo Nisio - tutti i diritti riservati
di Vincenzo Nisio - tutti i diritti riservati
L'ho conosciuta anche io. Mia madre le dava del pane e altro da mangiare.
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